A
chiunque, prima o poi, capita di porsi questa domanda: ma che accidenti è l’archeoastronomia?
Per provare a rispondere, e quindi dare un senso a questo
spazio virtuale cominceremo con la breve recensione di un libro che, si spera,
ci porterà a una risposta. Il libro è Archeoastronomia:
da Giza all’Isola di Pasqua e a provare a darci la risposta è Giulio Magli,
professore ordinario presso il Politecnico di Milano. E cosa troviamo tra i
suoi insegnamenti? L’unico corso di archeoastronomia istituito in una
università italiana. Ormai certi di aver trovato la persona giusta, proseguiamo
nella lettura.
L’archeoastronomia,
nome bruttissimo a detta dell’autore, è la scienza delle pietre e delle stelle.
Ma cosa significa esattamente? Pare di capire, leggendo il libro, che più
precisamente l’archeoastronomia sia la
scienza che studia come le antiche popolazioni si interessassero alle faccende
astronomiche e come, all’interno delle loro attività sociali, artistiche e
culturali venisse espresso questo interessamento.
Data
una definizione la faccenda sembra diventare più semplice, cosa ne potevano
sapere dei poveri primitivi di astronomia? Niente, a sentire la vecchia scuola
archeologica; l’archeostronomia quindi sembrerebbe una scienza che ha
straordinariamente poco da dire. Così non è se Magli è riuscito a parlarne per
379 pagine suddivise in diciannove capitoli e due appendici fornendoci una sorta di “manuale”
ricco di nozioni e informazioni.
La
prima parte del libro ci porta in giro per il mondo, mostrando al lettore come
praticamente ovunque si ritrovino orientamenti archeoastronomici. Si parte con i
monumenti megalitici bretoni, irlandesi e britannici, essi vengono descritti con
cura fino a giungere al non plus ultra
del megalitisimo, ovvero l’arcinoto e arcistudiato sito megalitico di
Stonehenge. Esso è anche il primo monumento di cui, nel libro, ci viene detto
accada qualcosa di “strano.” Certo, non “strano” nel senso in cui lo intendeva
Peter Kolosimo (che in Non è Terrestre descriveva apparizioni, visioni, luci e
ogni genere di fenomeno in una notte a Stonehenge) ma in questo senso: nei giorni prossimi al solstizio d’estate
il sole sorge in linea con l’asse dell’edificio, per poi filtrare verso il
centro. Anche se l’allineamento non è molto preciso, e certo il complesso
aveva molte altre funzioni, il fatto è significativo. Nel proseguo inoltre vengono
narrate molte altre di questi allineamenti, come nel caso di Newgrange.
Trattando dei megaliti, però, viene narrata anche l’opera di quelli che a buon
diritto dovrebbero essere considerati i padri fondatori di questa nuova
scienza: Norman Lockyear, Gerald Hawkins e Alexander Thom. Che vengono
descritti come il precursore, il pioniere e il sistematore teorico dell’archeoastronomia, e lavoravano
in un ambiente in cui i costruttori dei megaliti venivano considerati dei
primitivi ignoranti e incapaci della benché minima considerazione astronomica.
Si
prosegue poi passando da Malta e per l’Egitto, il capitolo dedicato a questa
civiltà si apre con un’affermazione di Neugebauer: “una civiltà che non avrebbe
diritto ad alcuno spazio nella storia dell’astronomia matematica.”
Affermazione, ovviamente, smentita con puntualità di dati.
Il
giro del mondo prosegue: passiamo in America, dove fra le altre si analizzano
le civiltà Inca, Maya e Anasazi. Per poi concludere questa prima parte del
libro con l’Isola di Pasqua: qui, ovviamente, si parla dei Moai, le enigmatiche
statue disseminate sull’isola. Che cosa sono i Moai? L’autore non propone una
spiegazione definitiva, ma fa notare due particolari veramente importanti:
tutti i Moai sono disposti sulla costa, ma guardano verso l’entroterra dell’isola.
E che cosa c’è nell’entroterra? Un vulcano, detto Rano Raraku, che guarda caso
ha lo stesso profilo dei Moai. Il vero enigma dell’Isola di Pasqua è come i polinesiani
l’abbiano scoperta, pare tuttavia dai racconti etnografici che i polinesiano
avessero una strabiliante abilità di navigatori, in particolare di notte,
orientandosi con le stelle.
La
seconda parte del libro è quasi una monografia dedicata all’Egitto e a quello
che l’autore definisce un paesaggio sacro: il complesso di Giza. Questa parte
del libro è veramente bella, ben documentata e studiata: qui troviamo una
disamina sui vari tipi di piramidi: dalle prime piramidi a gradoni sino a
quelle di Giza, una proposta di diversa datazione della piramide di Chefren e
della Sfinge. Per quanto riguarda Chefren rimandiamo al libro, mentre per la
Sfinge la querelle è nota: la sfinge riporta tracce di erosione dovuta all’acqua.
Accettato questo fatto, la datazione alla IV dinastia diventa inaccettabile.
Diventa difficilmente percorribile anche l’idea di una retrodatazione al 5000
a.C. L’ipotesi che, per così dire, salva capra e cavoli è del geologo Colin
Reader: egli suppone che la Sfinge sia antecedente alle piramidi solo di
qualche secolo. Tuttavia prima dello scavo per estrarre il materiale per
costruire le piramidi, le morfologia della piana causava lo scolo delle acque
piovane nel recinto della Sfinge.
Il
punto fondamentale di questo libro è rispettare
per capire. E’ impossibile capire le motivazioni di uomini che spostavano
massi dal peso di tonnellate, se li si ritiene dei selvaggi. E’ impossibile
capire la civiltà egiziana se si parte dal preconcetto che non sapessero nulla
di astronomia. Forse è anche impossibile ottenere le risposte giuste, ma
sarebbe già un grandissimo risultato porci le domande giuste.
E
con questo, consideriamo dato ufficialmente il via a questo esperimento.
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