In questo post andiamo a vedere un mito che ha
attraversato secoli di storia e decine di autori praticamente indenne: quello
delle Isole Fortunate.
Il primo a citare le Isole Fortunate (note anche come Isole dei Beati)
fu Omero. O meglio: la prima
citazione che i successivi interpreti hanno collegato alle Isole Fortunate fu
di Omero. Come si potrà bene vedere, questa interpretazione può essere messa in
dubbio.
A te poi è stabilito, o Menelao
prole di Zeus,
che in Argo patria di cavalli tu
non compia il destino di morte.
Gli dei immortali invece nella
pianura Elisia ti manderanno
e ai confini estremi della
terra, dove è il biondo Radamanto,
e dove per gli uomini il vivere
è agevole e senza fatica.
Non c’è mai neve né il crudo
inverno né pioggia,
ma sempre l’Oceano manda soffi
di Zefiro
dall’acuto sibilo per dare
refrigerio agli uomini.
La tua sposa è Elena e per loro
sei genero di Zeus.
Od., IV,
561-570
Queste poche righe vengono considerate la prima, peraltro vaga,
citazione riguardo all’argomento in esame. Notiamo subito che non si tratta di
isole, ma di una generica pianura posta “alla fine del mondo.” Ora ci sono
buoni motivi per ritenere che con questa locuzione dovesse intendersi l’estremo
occidente, per due motivi. Il primo, puramente geografico, è che l’Europa è
estesa solo verso Oriente mentre a Occidente c’è una barriera, l’Oceano
Atlantico, che ben può portare alla nascita di un simile concetto. La seconda
considerazione riguarda il sole, il cui percorso tramonta a occidente.
E’ da notare che Omero, nel descrivere un luogo paradisiaco lo
identifica come prima cosa in un luogo senza neve e senza inverno. Questo
genere di considerazioni hanno spinto alcuni a ipotizzare che le avventure
omeriche si siano svolte in un contesto puramente nordico e, in seguito a una
migrazione di popoli, siano state trapiantate in Grecia, capostipite di queste
ipotesi è Felice Vinci con il suo monumentale Omero nel Baltico. Benché ipotesi non priva di fondamenta, in
questo caso non serve: citiamo Braudel
; egli confuta il topos del clima
mediterraneo come clima ideale ma in realtà come clima duro in cui dibattersi
fra inverni freddi ed estati torride. Anche Livio narra di un Tevere gelato dal
freddo; un tale evento può sembrare assurdo nelle attuali condizioni
climatiche, ma non è altrettanto assurdo immaginare che le condizioni
climatiche dell’epoca fossero più fredde.
Tornando a Omero, non è ben chiaro perché a Menelao sia concesso di
vivere nella terra dei beati: a ben vedere la parentela con Zeus, ne è il
genero avendone sposato la figlia, non regge. Numerosi erano i figli e i generi
di Zeus cui è riservata la morte, nell’Iliade la morte dell’amatissimo Sarpedonte
getta nella costernazione lo stesso Zeus. E’ necessario tuttavia precisare che
la sorte, nella mitologia greca, si muoveva con leggi ignote alle stesse
divinità.
A chiunque abbia familiarità con i poemi omerici sembrerà assurdo
provare a cercare corrispondenze geografiche precise, tuttavia Manfredi (le Isole Fortunate:
Topografia di un mito) rileva giustamente come Zefiro sia un vento che in
Grecia risulti estremamente sgradevole, caldo e secco com’è. E’ invece un
fresco vento di mare presso il delta del Nilo. Inoltre le parole di Menelao vanno
contestualizzate nel racconto delle sue imprese in Egitto: dopo aspre fatiche è
riuscito a catturare e farsi predire il destino dal multiforme Proteo; aggiungiamo
che per gli egizi l’estremo occidente era la dimora Ra e sede degli dei
ultraterreni.
Vediamo però come il poema cada in una, forse, apparente
contraddizione: Odisseo raggiunge la terra dei morti navigando, di nuovo, verso
l’estremo occidente, ma in questo caso trova una terra tetra e oscura, mai
illuminata dal sole e popolata di ombre disperate dalla nostalgia per la vita
precedente, terra a cui si legano i racconti relativi a popolazioni come i
cimmeri, mai toccate dal sole (Od, XI 14).
A quanto pare, per Omero l’Occidente era sinonimo sia di paradiso che
di terra dei morti.
Descriviamo la soluzione al problema posta da Manfredi: c’è un punto,
mai chiamato per nome nell’Odissea ma comunque identificato per essere
passaggio fra il mare e l’Oceano. Esse sono le colonne d’Ercole. In questa
strozzatura geografica si creavano gorghi marini e narrativi: sulle rive dello
stretto si bloccavano sia i racconti relativi alle terre del Nord che, per vari
mesi all’anno, erano orfane del sole; sia i racconti delle isole tropicali che,
nei racconti di qualche fortuito viaggiatore, venivano descritte come terre
paradisiache.
In un precedente articolo abbiamo accennato alla teoria di Frau, secondo
cui le antiche colonne d’Ercole vadano identificate nel canale di Sicilia e non
in Gibilterra. L’impianto logico di Manfredi resta comunque valido: l’età del
Bronzo era caratterizzata da fitti rete commerciali che agivano lungo vie fluviali
e marittime, per cui come Gibilterra, anche il canale di Sicilia poteva essere
una strozzatura in cui racconti diversi si intersecavano e sovrapponevano.
Passiamo ora ad Esiodo:
Allora accadde invero che alcuni
di essi
dal fato di morte furono rapiti,
mentre ad altri, lontano dagli
uomini,
Zeus Cronide assegnò vita e dimora,
e li pose ai confini della
terra,
(ben lungi dagli Immortali sui
quali
Kronos ha l’impero).
Ed essi abitano, con l’animo
sgombro
d’affanni, nelle Isole dei beati
presso
l’Oceano gorghi profondi;
essi, gli eroi venerandi, ai
quali
tre volte l’anno la terra
fertile
di doni porta abbondante
e piacevole frutto.
le Opere e i Giorni, 166-173
Esiodo aggiunge tre informazioni interessanti: le isole Fortunate sono,
finalmente, vere isole; sono diverse dalle terre su cui regna Kronos avendo
sudditi gli immortali; viene introdotto il tema dell’agricoltura. L’immaginario
riguardo al paradiso rivela qualcosa della vita di chi lo immagina: per Omero
era un luogo dal clima mite, mentre per Esiodo è una terra che si coltiva da
se. Viene spontaneo ipotizzare che Esiodo fosse un agricoltore a tempo pieno,
mentre la società di Omero non conoscesse le fatiche dell’agricoltura (e in
effetti nei poemi omerici sono assai più presenti i pastori che i contadini).
Con Pindaro le cose
sembrano diventare più chiare:
[…] Ma i buoni avendo sempre il
sole
che risplende ugualmente sia di
notte
che di giorni, conducono una
vita
senza affanno: non devono
rivoltare
la terra con la forza delle loro
mani
né i flutti del mare
per guadagnarmi misero
sostentamento.
Ma alla presenza degli dei
venerandi
coloro che si compiacquero
di tener fede ai giuramenti
trascorrono senza lacrime la
vita
mentre gli altri sopportano
supplizi
che nessuno può guardare.
Ma tutti coloro che, abitando in
un
mondo o nell’altro, ebbero la
forza
per tre volte di tenere l’animo
completamente puro da
ingiustizia,
compirono il cammino di Zeus
fino alla torre di Kronos
dove le brezze dell’Oceano
soffiano
attorno alle isole dei beati
e fiori d’oro risplendono sulla
terra
da alberi splendidi e altri
l’acqua li nutre. Di essi si
intrecciano
corone o ghirlande secondo i
retti
decreti di Radamanto che si
tiene
accanto quale pronto consigliere
il gran padre Kronos, sposo di
Rea,
la quale tra tutti gli dei
occupa
la sede suprema.
(Pindaro, Olimpica II, vv. 61-76)
Manfredi ipotizza che la “torre di Kronos” non sia altro che il Pico
de Teide, dimostrando come, da Pindaro in poi, l’identificazione delle isole
dei beati con le Canarie sia più che giustificata. Pindaro è dunque, a quanto
sembra, un punto fermo. Lo è inoltre per un altro motivo: è il primo a citare
le colonne d’Ercole.
Avendo citato Kronos bisogna fare una pausa e parlare di una strana “fuga
a Ovest” di divinità. Kronos non è altri che Baal e la “torre di Kronos” era, assai
probabilmente qualcosa che i fenici avevano trovato a Occidente e chiamato “torre
di Baal.” Il corrispettivo egizio di Baal e Kronos è Ra, la cui sede era in
Occidente. Il Saturno dei Romani, giunto in Italia, regna in pace sugli
Aborigeni fino all’arrivo di Giove, che lo detronizza e caccia (forse a Occidente?)
infine, la carta mitica del Libro di Enoch pone a Occidente nientemeno che la
casa di Dio.
Qui interessa tuttavia provare a vedere cosa potrebbero essere state
le isole dei beati prima della loro
identificazione con le Canarie.
Questo è un problema notevole, cui pensiamo si debbano aggiungere
citazioni assai misteriose di Diodoro
Siculo (V, 19-20) e Pseudo
Aristotele. Diodoro Siculo afferma che i Fenici avessero scoperto le isole
Fortunate, e che su quelle stesse isole volessero impiantare una colonia gli
Etruschi e che in ciò venissero fermati dagli stessi Fenici che manifestarono
il timore che dei Fenici stessi vi si trasferissero. Pseudo Aristotele racconta invece di una colonia oltremare
distrutta manu militari dagli stessi
cartaginesi.
Questi due passi non sono per nulla chiari: non si capiscono le
ragioni dietro all’annientamento di una propria colonia, né si capisce come gli
etruschi, che mai dedussero colonie, ne volessero fare sulle isole Fortunate.
Una possibile soluzione, ovviamente suggerita da Sergio Frau, sarebbe identificare nel primo prototipo delle Isole
Fortunate un’isola mediterranea posta al di là dello Stretto di Sicilia. Lasciamo
al lettore decidere a che isola si riferisse Frau.
C’è tuttavia qualcosa di più profondo in questo Occidente sede delle
divinità: anche il giardino delle Esperidi era a Occidenti e, benché appia
strano, forse anche l’Eden lo era: altrimenti perché Dio avrebbe messo i
cherubini a guardia della porta orientale?
Inoltre un altro topos letterario sembra incrociarsi con quello delle isole:
quello della confluenza degli oceani e dei fiumi. La sede del dio El di Ugarit
è posta alla confluenza di due oceani, dove nascono due fiumi. La stessa sede è
riservata a Baal, ed è la stessa sede dove giunge Gilgamesh a ricercare l’immortalità.
Forse tutti questi racconti rispecchiano i pallidi riflessi di
ricordi, ricordi di un’antica terra felice. Un vero paradiso, divenuta poi in seguito
a qualche triste evento una terra abbandonata e abitata solo da creature morte.
Lasciamo ora queste suggestioni per presentare un’interpretazione
assai diversa: quella esposta da Lucio
Russo ne l’America dimenticata.
Questa ipotesi è basata sull’incongruenza fra le misure della
circonferenza terrestre di due pesi massimi della topografia antica. Eratostene, noto per la misura della
circonferenza terrestre, e Tolomeo,
“Inventore” della geografia. Il primo misura la circonferenza terrestre in
252.000 stadi, mentre il secondo la riduce a 180.000 e per di più senza nemmeno
dare spiegazioni della differenza. L’ipotesi ha come cardine proprio le isole
Fortunate, isole in cui Tolomeo riconosce indubbiamente le Canarie e di cui fa
mostra di avere anche le coordinate. Solo che, secondo Russo, Tolomeo non aveva
le coordinate delle Canarie, bensì delle Azzorre. La differenza fra i due
arcipelaghi è esattamente la differenza di misura introdotta da Tolomeo: avendo
le coordinate delle Azzorre e dovendole fare coincidere con le Canarie, poiché
erano le uniche isole Fortunate da lui conosciute, Tolomeo ha semplicemente
rimpicciolito il mondo.
Bisogna dire che si tratta di una teoria affascinante ma ambigua: la
parte cartografica è assolutamente credibile (ed è in effetti assolutamente
coerente) mentre la spiegazione storica è abbastanza zoppicante: Russo suppone
che alla fine del periodo ellenistico ci sia stato un collasso sociale che
avrebbe portato alla perdita delle conoscenze necessarie a raggiungere le
Azzorre (e le Americhe), il supposto collasso non è riconosciuto dagli storici
e, inoltre, lo stesso autore ammette poi che tali collegamenti Europa-America
devono essere rimasti attivi fin all’età imperiale. In effetti, una prova
stupefacente è rappresentata da un bassorilievo ritrovato a Pompei che
rappresenta un ananas, frutto che in Europa non dovrebbe esiste fino
all’avvento di Colombo. In sostanza, se la spiegazione cartografica è buona
resta da capire quando esattamente i greci (o chi per loro) fossero giunti alle
Azzorre, perché se ne fossero dimenticati e chi, esattamente, in età imperiale
andasse avanti e indietro per l’oceano Atlantico commerciando, in gran segreto,
degli ananas. Certo, la pragmatica mentalità romana non si sarebbe preoccupata
di una terra tanto lontana da non poter essere sottomessa all’Impero ma resta
comunque il dubbio di come mai non venisse mai citata dagli autori classici
oppure come mai venisse sistematicamente confusa con altre isole.
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