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28/01/15

Le Isole Fortunate



In questo post andiamo a vedere un mito che ha attraversato secoli di storia e decine di autori praticamente indenne: quello delle Isole Fortunate.
Il primo a citare le Isole Fortunate (note anche come Isole dei Beati) fu Omero. O meglio: la prima citazione che i successivi interpreti hanno collegato alle Isole Fortunate fu di Omero. Come si potrà bene vedere, questa interpretazione può essere messa in dubbio.


A te poi è stabilito, o Menelao prole di Zeus,
che in Argo patria di cavalli tu non compia il destino di morte.
Gli dei immortali invece nella pianura Elisia ti manderanno
e ai confini estremi della terra, dove è il biondo Radamanto,
e dove per gli uomini il vivere è agevole e senza fatica.
Non c’è mai neve né il crudo inverno né pioggia,
ma sempre l’Oceano manda soffi di Zefiro
dall’acuto sibilo per dare refrigerio agli uomini.
La tua sposa è Elena e per loro sei genero di Zeus.

Od., IV, 561-570

Queste poche righe vengono considerate la prima, peraltro vaga, citazione riguardo all’argomento in esame. Notiamo subito che non si tratta di isole, ma di una generica pianura posta “alla fine del mondo.” Ora ci sono buoni motivi per ritenere che con questa locuzione dovesse intendersi l’estremo occidente, per due motivi. Il primo, puramente geografico, è che l’Europa è estesa solo verso Oriente mentre a Occidente c’è una barriera, l’Oceano Atlantico, che ben può portare alla nascita di un simile concetto. La seconda considerazione riguarda il sole, il cui percorso tramonta a occidente.
E’ da notare che Omero, nel descrivere un luogo paradisiaco lo identifica come prima cosa in un luogo senza neve e senza inverno. Questo genere di considerazioni hanno spinto alcuni a ipotizzare che le avventure omeriche si siano svolte in un contesto puramente nordico e, in seguito a una migrazione di popoli, siano state trapiantate in Grecia, capostipite di queste ipotesi è Felice Vinci con il suo monumentale Omero nel Baltico. Benché ipotesi non priva di fondamenta, in questo caso non serve: citiamo Braudel ; egli confuta il topos del clima mediterraneo come clima ideale ma in realtà come clima duro in cui dibattersi fra inverni freddi ed estati torride. Anche Livio narra di un Tevere gelato dal freddo; un tale evento può sembrare assurdo nelle attuali condizioni climatiche, ma non è altrettanto assurdo immaginare che le condizioni climatiche dell’epoca fossero più fredde.
Tornando a Omero, non è ben chiaro perché a Menelao sia concesso di vivere nella terra dei beati: a ben vedere la parentela con Zeus, ne è il genero avendone sposato la figlia, non regge. Numerosi erano i figli e i generi di Zeus cui è riservata la morte, nell’Iliade la morte dell’amatissimo Sarpedonte getta nella costernazione lo stesso Zeus. E’ necessario tuttavia precisare che la sorte, nella mitologia greca, si muoveva con leggi ignote alle stesse divinità.
A chiunque abbia familiarità con i poemi omerici sembrerà assurdo provare a cercare corrispondenze geografiche precise, tuttavia Manfredi (le Isole Fortunate: Topografia di un mito) rileva giustamente come Zefiro sia un vento che in Grecia risulti estremamente sgradevole, caldo e secco com’è. E’ invece un fresco vento di mare presso il delta del Nilo. Inoltre le parole di Menelao vanno contestualizzate nel racconto delle sue imprese in Egitto: dopo aspre fatiche è riuscito a catturare e farsi predire il destino dal multiforme Proteo; aggiungiamo che per gli egizi l’estremo occidente era la dimora Ra e sede degli dei ultraterreni.
Vediamo però come il poema cada in una, forse, apparente contraddizione: Odisseo raggiunge la terra dei morti navigando, di nuovo, verso l’estremo occidente, ma in questo caso trova una terra tetra e oscura, mai illuminata dal sole e popolata di ombre disperate dalla nostalgia per la vita precedente, terra a cui si legano i racconti relativi a popolazioni come i cimmeri, mai toccate dal sole (Od, XI 14).  
A quanto pare, per Omero l’Occidente era sinonimo sia di paradiso che di terra dei morti.
Descriviamo la soluzione al problema posta da Manfredi: c’è un punto, mai chiamato per nome nell’Odissea ma comunque identificato per essere passaggio fra il mare e l’Oceano. Esse sono le colonne d’Ercole. In questa strozzatura geografica si creavano gorghi marini e narrativi: sulle rive dello stretto si bloccavano sia i racconti relativi alle terre del Nord che, per vari mesi all’anno, erano orfane del sole; sia i racconti delle isole tropicali che, nei racconti di qualche fortuito viaggiatore, venivano descritte come terre paradisiache.
In un precedente articolo abbiamo accennato alla teoria di Frau, secondo cui le antiche colonne d’Ercole vadano identificate nel canale di Sicilia e non in Gibilterra. L’impianto logico di Manfredi resta comunque valido: l’età del Bronzo era caratterizzata da fitti rete commerciali che agivano lungo vie fluviali e marittime, per cui come Gibilterra, anche il canale di Sicilia poteva essere una strozzatura in cui racconti diversi si intersecavano e sovrapponevano.
Passiamo ora ad Esiodo:

Allora accadde invero che alcuni di essi
dal fato di morte furono rapiti,
mentre ad altri, lontano dagli uomini,
Zeus Cronide assegnò vita e dimora,
e li pose ai confini della terra,
(ben lungi dagli Immortali sui quali
Kronos ha l’impero).
Ed essi abitano, con l’animo sgombro
d’affanni, nelle Isole dei beati presso
l’Oceano gorghi profondi;
essi, gli eroi venerandi, ai quali
tre volte l’anno la terra fertile
di doni porta abbondante
e piacevole frutto.

le Opere e i Giorni, 166-173

Esiodo aggiunge tre informazioni interessanti: le isole Fortunate sono, finalmente, vere isole; sono diverse dalle terre su cui regna Kronos avendo sudditi gli immortali; viene introdotto il tema dell’agricoltura. L’immaginario riguardo al paradiso rivela qualcosa della vita di chi lo immagina: per Omero era un luogo dal clima mite, mentre per Esiodo è una terra che si coltiva da se. Viene spontaneo ipotizzare che Esiodo fosse un agricoltore a tempo pieno, mentre la società di Omero non conoscesse le fatiche dell’agricoltura (e in effetti nei poemi omerici sono assai più presenti i pastori che i contadini).
Con Pindaro le cose sembrano diventare più chiare:

[…] Ma i buoni avendo sempre il sole
che risplende ugualmente sia di notte
che di giorni, conducono una vita
senza affanno: non devono rivoltare
la terra con la forza delle loro mani
né i flutti del mare
per guadagnarmi misero sostentamento.
Ma alla presenza degli dei venerandi
coloro che si compiacquero
di tener fede ai giuramenti
trascorrono senza lacrime la vita
mentre gli altri sopportano supplizi
che nessuno può guardare.
Ma tutti coloro che, abitando in un
mondo o nell’altro, ebbero la forza
per tre volte di tenere l’animo
completamente puro da ingiustizia,
compirono il cammino di Zeus
fino alla torre di Kronos
dove le brezze dell’Oceano soffiano
attorno alle isole dei beati
e fiori d’oro risplendono sulla terra
da alberi splendidi e altri
l’acqua li nutre. Di essi si intrecciano
corone o ghirlande secondo i retti
decreti di Radamanto che si tiene
accanto quale pronto consigliere
il gran padre Kronos, sposo di Rea,
la quale tra tutti gli dei occupa
la sede suprema.

(Pindaro, Olimpica II, vv. 61-76)

Manfredi ipotizza che la “torre di Kronos” non sia altro che il Pico de Teide, dimostrando come, da Pindaro in poi, l’identificazione delle isole dei beati con le Canarie sia più che giustificata. Pindaro è dunque, a quanto sembra, un punto fermo. Lo è inoltre per un altro motivo: è il primo a citare le colonne d’Ercole.
Avendo citato Kronos bisogna fare una pausa e parlare di una strana “fuga a Ovest” di divinità. Kronos non è altri che Baal e la “torre di Kronos” era, assai probabilmente qualcosa che i fenici avevano trovato a Occidente e chiamato “torre di Baal.” Il corrispettivo egizio di Baal e Kronos è Ra, la cui sede era in Occidente. Il Saturno dei Romani, giunto in Italia, regna in pace sugli Aborigeni fino all’arrivo di Giove, che lo detronizza e caccia (forse a Occidente?) infine, la carta mitica del Libro di Enoch pone a Occidente nientemeno che la casa di Dio.
Qui interessa tuttavia provare a vedere cosa potrebbero essere state le isole dei beati prima della loro identificazione con le Canarie.
Questo è un problema notevole, cui pensiamo si debbano aggiungere citazioni assai misteriose di Diodoro Siculo (V, 19-20) e Pseudo Aristotele. Diodoro Siculo afferma che i Fenici avessero scoperto le isole Fortunate, e che su quelle stesse isole volessero impiantare una colonia gli Etruschi e che in ciò venissero fermati dagli stessi Fenici che manifestarono il timore che dei Fenici stessi vi si trasferissero. Pseudo Aristotele racconta invece di una colonia oltremare distrutta manu militari dagli stessi cartaginesi.
Questi due passi non sono per nulla chiari: non si capiscono le ragioni dietro all’annientamento di una propria colonia, né si capisce come gli etruschi, che mai dedussero colonie, ne volessero fare sulle isole Fortunate. Una possibile soluzione, ovviamente suggerita da Sergio Frau, sarebbe identificare nel primo prototipo delle Isole Fortunate un’isola mediterranea posta al di là dello Stretto di Sicilia. Lasciamo al lettore decidere a che isola si riferisse Frau.
C’è tuttavia qualcosa di più profondo in questo Occidente sede delle divinità: anche il giardino delle Esperidi era a Occidenti e, benché appia strano, forse anche l’Eden lo era: altrimenti perché Dio avrebbe messo i cherubini a guardia della porta orientale? Inoltre un altro topos letterario sembra incrociarsi con quello delle isole: quello della confluenza degli oceani e dei fiumi. La sede del dio El di Ugarit è posta alla confluenza di due oceani, dove nascono due fiumi. La stessa sede è riservata a Baal, ed è la stessa sede dove giunge Gilgamesh a ricercare l’immortalità.
Forse tutti questi racconti rispecchiano i pallidi riflessi di ricordi, ricordi di un’antica terra felice. Un vero paradiso, divenuta poi in seguito a qualche triste evento una terra abbandonata e abitata solo da creature morte.
Lasciamo ora queste suggestioni per presentare un’interpretazione assai diversa: quella esposta da Lucio Russo ne l’America dimenticata.
Questa ipotesi è basata sull’incongruenza fra le misure della circonferenza terrestre di due pesi massimi della topografia antica. Eratostene, noto per la misura della circonferenza terrestre, e Tolomeo, “Inventore” della geografia. Il primo misura la circonferenza terrestre in 252.000 stadi, mentre il secondo la riduce a 180.000 e per di più senza nemmeno dare spiegazioni della differenza. L’ipotesi ha come cardine proprio le isole Fortunate, isole in cui Tolomeo riconosce indubbiamente le Canarie e di cui fa mostra di avere anche le coordinate. Solo che, secondo Russo, Tolomeo non aveva le coordinate delle Canarie, bensì delle Azzorre. La differenza fra i due arcipelaghi è esattamente la differenza di misura introdotta da Tolomeo: avendo le coordinate delle Azzorre e dovendole fare coincidere con le Canarie, poiché erano le uniche isole Fortunate da lui conosciute, Tolomeo ha semplicemente rimpicciolito il mondo.
Bisogna dire che si tratta di una teoria affascinante ma ambigua: la parte cartografica è assolutamente credibile (ed è in effetti assolutamente coerente) mentre la spiegazione storica è abbastanza zoppicante: Russo suppone che alla fine del periodo ellenistico ci sia stato un collasso sociale che avrebbe portato alla perdita delle conoscenze necessarie a raggiungere le Azzorre (e le Americhe), il supposto collasso non è riconosciuto dagli storici e, inoltre, lo stesso autore ammette poi che tali collegamenti Europa-America devono essere rimasti attivi fin all’età imperiale. In effetti, una prova stupefacente è rappresentata da un bassorilievo ritrovato a Pompei che rappresenta un ananas, frutto che in Europa non dovrebbe esiste fino all’avvento di Colombo. In sostanza, se la spiegazione cartografica è buona resta da capire quando esattamente i greci (o chi per loro) fossero giunti alle Azzorre, perché se ne fossero dimenticati e chi, esattamente, in età imperiale andasse avanti e indietro per l’oceano Atlantico commerciando, in gran segreto, degli ananas. Certo, la pragmatica mentalità romana non si sarebbe preoccupata di una terra tanto lontana da non poter essere sottomessa all’Impero ma resta comunque il dubbio di come mai non venisse mai citata dagli autori classici oppure come mai venisse sistematicamente confusa con altre isole.

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